“Il verde è l’erba che taglia mio papà, ha un odore particolare secondo le stagioni, verde scuro è l’erba tagliata in primavera, il rosso è un maglione di lana, la sensazione di quel maglione indossato in un giorno di sole. Per me il colore è pasta, materia, il blu è freddo e opprimente, un colore difficile che ti mozza il respiro, ti viene contro, il rosso ti abbraccia, ti accarezza.
Il bianco è asettico, mi fa pensare alla neve ma credo sia una suggestione letteraria, impossibile scindere quello che sei da quello che hai imparato, sei anche in base a ciò che hai imparato, mi piace il bianco delle nuvole bianche, come la panna montata, sono golosa, ricordo una foto della Danimarca che è un toast al salmone, nella foto ci sono scogli, cielo e le nuvole, la nuvola al centro rappresenta il toast, mentre scattavo io sentivo quel profumo di toast al salmone.
Il marrone è ciambellone, marrone ancora crudo, marrone dorato, marrone sbruciacchiato, un rito familiare della domenica, mio padre controllava la cottura mentre mamma ci faceva il bagno. Gli odori cambiano, non sono fissi, lo stesso vale per il colore, puoi vederlo diverso a seconda dei giorni e dall’intensità, così come i colori della luce.”
Riporto qui la testimonianza resami da Antonella Cappabianca, avvocato, fotografa, non vedente dalla nascita. Ho avuto la fortuna di aiutare la Cappabianca nella selezione e nella presentazione di alcune sue fotografie per un concorso, non mi dilungo in questa sede sui molti e appassionanti insegnamenti che l’esperienza mi ha trasmesso, ma ciò che riporto mi è stato utile a comprendere quanto un utilizzo più esteso dei nostri sensi ci aiuterebbe a vedere e toccare la realtà che ci circonda, a fare esperienza del mondo in modo diverso.
Antonella Cappabianca vede la materia dei colori perché ne ha fatto esperienza tattile, olfattiva ed emotiva.
Le arti elettroniche ci dicono proprio questo: la luce è materia, le onde sonore ed elettromagnetiche sono materia e il non riuscire a vedere questa materia ad occhi nudi non ci consente di dubitare della sua esistenza. Le arti elettroniche giocano con questa materia invisibile e ce la rendono visibile. In seno al gruppo Fluxus, nato in Germania negli anni ’50, si ebbero le prime sperimentazioni di artisti quali Wolf Vostell che nel 1963 espone la prima videoistallazione Televion Decollage presso la Smolin Gallery a NY. L’artista tedesco inventore della tecnica che chiamò Decollage, ibrido tra collage e decollo, a significare la volontà di rivelare la struttura degli oggetti di uso quotidiano, scelse proprio il monitor televisivo come protagonista della sua poetica.
L’artista Nam June Paik (1932-2006) coreano di nascita e pianista classico di formazione, allievo di Stockhausen in Germania e Cage negli USA, grazie alla frequentazione con l’artista Fluxus Vostell subisce il fascino della tecnica televisiva e sempre nel 1963 espone 13 Distorted Tv Sets presso la Galleria Parnasse di Wuppertal.
Si legge nel libro Videoarte – storia, autori, linguaggi di Alessandro Amaducci: “Contemporaneamente (Paik) è affascinato dalla possibilità che il televisore e l’immagine elettronica, opportunamente manipolati, possano produrre immagini dominate dalla velocità, dal caos, dai colori puri, dall’imprevedibilità: i risultati possono apparire kitsch, di cattivo gusto, senza controllo dal punto di vista formale.
Ma il suo progetto è proprio questo: aprire la scatola chiusa della tecnologia e renderla “ridicola” approfittare dei suoi difetti, degli incidenti, dei malfunzionamenti, degli errori.”
Anche Steina (1940) e Woody(1937) Vasulka, praghesi di nascita e attivi dal 1964 a New York, come molti degli artisti elettronici costruirono macchine utili ad indagare il flusso della materia invisibile. Violinista e teorica della musica lei, ingegnere meccanico e studioso di cinema e televisione lui, le loro sperimentazioni spaziano dall’interazione suono-immagine per cui un segnale video viene deformato dal suono del violino, all’invenzione di strumenti capaci di creare immagini su base algoritmica trasformandole in segnali analogici e alla robotica con la “scoperta” del punto di vista della macchina.
Già nel 1947 il pittore italiano Lucio Fontana con il Primo Manifesto dello Spazialismo aveva dichiarato: ” Ci rifiutiamo di pensare che scienza e arte siano due fatti distinti”, concetti ripresi poi nel ’52 nel Manifesto del movimento spaziale per la televisione che come sostenuto da Marco Maria Gazzano nel libro Kinema – La materia del video, “anticipa di quasi dieci anni la ricerca di Nam June Paik”.
©Simona Filippini